FESTIVAL, CORRADO AUGIAS FA RIVIVERE AL TEATRO ROMANO UN INEDITO GIACOMO LEOPARDI

(Jacopo Brugalossi) - Chi ha avuto la fortuna di assistere ieri, al Teatro Romano, allo spettacolo di Corrado Augias “Leopardi e l’Italia”, ha avuto la conferma che Giacomo Leopardi non fu soltanto un magnifico poeta, ma anche, a suo modo, un patriota, un personaggio che amava l’Italia e che proprio per questo non esitava a metterne a nudo il malcostume che la dominava nella prima parte dell’800.

E’ la suadente voce di Arnoldo Foa che apre lo spettacolo. La sua interpretazione dell’Infinito strappa applausi convinti pubblico seduto sulle gradinate, non quello delle grandissime occasioni ma comunque numeroso, nonostante le abbondanti piogge pomeridiane. Il maestro avrebbe voluto essere presente in scena ma è stato costretto a dare forfait per un’indisposizione dell’ultima ora. Allo sfumare dei versi della celebre poesia Corrado Augias fa il suo ingresso in scena, e inizia a raccontare la vita di Giacomo, partendo d una frase dell’Infinito: “io nel pensier mi fingo”. “Quello che conta nella poetica di Giacomo – spiega il famoso giornalista e scrittore - è ciò che lui può immaginare col pensiero, lì c’è il Leopardi più vero. L’immaginazione è la sua più vera realtà”.

Augias percorre la tappe salienti della vita del poeta recanatese, coadiuvato dalla musica dal vivo della chitarra classica del maestro Stefano Albarello e dalle drammatizzazioni di versi e sonetti di Marta dalla Via. In particolare con il primo, vero e proprio filologo della musica, Augias mette in scena dei siparietti che divertono e coinvolgono il pubblico, più o meno calzanti con le vicende leopardiane. Molto piacevole la dissertazione sugli inni, e su Goffredo Mameli in particolare, che nel 1949, ferito ad una gamba e in una camera di ospedale, pochi istanti prima di morire sente risuonare le parole del suo “Fratelli d’Italia”, scritte a soli 21 anni, dai soldati che passano in strada, e che stavano combattendo per “fare il paese”.

La composizione “patriottica” di Leopardi inizia nel 1818 quando, all’età di 20 anni, esce per la prima volta di casa da solo. Nel canto “All’Italia”, Giacomo evoca i miti del passato per paragonarli al decadimento della sua epoca, che crea sconforto e disillusione. Nello Zibaldone, il suo sterminato diario intellettuale, il poeta si scaglia ancor più duramente contro il cristianesimo, definito unica religione contro natura, e contro la politica, che ha il potere di rendere gli uomini infelici sotto qualsiasi forma di governo. Durante il suo viaggio a Roma, Leopardi parla dei Cardinali e dei prelati in genere come delle persone peggiori del mondo, che sono arrivate dove sono grazie a puttane e a donnine di vario genere. Ma è nel “Discorso sopra lo stato presente della società italiana” che gli scritti raggiungono l’apice del dissenso nei confronti del malcostume italiano. “In Italia invece di discutere si schernisce l’interlocutore” e “Non c’è legge che tenga quando la corruzione dilaga” si legge nel “Discorso”. Augias sottolinea ad un pubblico attonito ma consapevole la forza profetica delle parole del Leopardi, la crudele descrizione di un paese in cui la forza della legge è resa vana dall’assenza di scrupoli.

Augias e il suo partner di scena Albarello si “stuzzicano” continuamente, coinvolgendo appieno il pubblico nelle loro sagaci trasposizioni all’attualità del paese descritto da Leopardi. Nessuno si meraviglierebbe se il “Discorso” fosse stato scritto nei giorni nostri. “Ma – sottolinea Augias quando Albarello racconta la storia “Va pensiero” – pensare di fare di quel coro l’inno di un movimento politico che ha al suo interno spinte secessioniste vuol dire non aver capito proprio nulla”. Chiaro riferimento alla Lega Nord.

Lo spettacolo volge al termine, così come la vita del protagonista. Nel 1833 Leopardi giunge a Napoli, in piena epidemia di colera. Nei suoi ultimi anni, Giacomo si chiede sempre più spesso che senso abbia vivere, anche a causa delle umiliazioni che il suo aspetto fisico gli ha fatto provare lungo il corso di tutta la sua esistenza. E’ di nuovo la voce di Arnoldo Foa a risuonare, nell’interpretazione del “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, composto tra il 1829 e il 1830 durante un breve passaggio a Recanati, dove il poeta scrive la frase che più di ogni altro lo tormenta: “Ove tende questo vagar mio breve”.

Il vagar breve di Giacomo Leopardi finisce nel 1937. Grazie a Corrado Augias, all’immagine di un poeta cosmicamente pessimista, nato e vissuto con la vergogna del suo aspetto fisico e alla costante ricerca del rifugio dell’immaginazione, si aggiunge quella di un personaggio lucido e lungimirante, patriota disilluso, profeta di un paese che a quasi 200 anni di distanza non ha ancora trovato se stesso.