“IL SERPENTE”, QUANDO LA MENZOGNA RIEMPE LA SOLITUDINE (Foto)

(Elisa Panetto) – Non fosse stato per la presenza di qualche giornalista e cameraman al lavoro, gli unici presenti in sala, la Prima de “Il serpente (Giallofonico letto da un sospetto)”, andata in scena ieri, sarebbe stata davvero a repentaglio. Come se non bastasse c’era anche chi, complice il buio, la comodità dei sedili e il tepore della Sala Frau, ne ha approfittato per concedersi un pisolino…a tratti rumoroso. “Il serpente (Giallofonico letto da un sospetto)”, regia di Gianluca Bottoni, è tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore, sceneggiatore e giornalista di Berceto, Luigi Malerba, tra i maggiori e più tradotti scrittori italiani del secondo Novecento. Membro della neoavanguardia sperimentalista del Gruppo 63, Luigi Malerba – pseudonimo di Luigi realtà Bonardi – era un grande sperimentatore di linguaggi con un personaggio letterario preferito: Don Chisciotte. Certo è che la lezione dello scrittore spagnolo Miguel de Cervantes Saavedra, col gioco della deformazione, ha agito sia sullo scrittore che sul regista.

Un teatro dell’essenziale. Un teatro della semplicità. Avaro di oggetti e di orpelli. Questo colpisce subito nell’osservare l’allestimento scenico, già prima del suo inizio, de “Il serpente”.

A fare da scenografia – curata dalla G.B. Studio che produce lo spettacolo – sul e alla sinistra del palcoscenico, un leggio con il corpus della rappresentazione, una lampadina che si accende solo quando lo spettacolo ha luogo nel negozio e nell’abitazione del suo protagonista, e un grosso telo bianco, dove vengono proiettate luci, ombre, sagome, oggetti e addirittura stati meteorologici (ma il sole non vi avrà accesso). E una sedia di legno, nascosta per tutto il tempo della rappresentazione.

Il drappo ha un ruolo fondamentale. E’ da lì che si avvertono le presenze. Da lì si accende lo schermo cinematografico del ricordo. E sempre da lì s’infiamma il rosso della passione e del sesso, come altri colori densi di significato e sensazioni. Tutto questo non vivrebbe senza il gioco continuo di luci e ombre, vera linfa dello spettacolo (in tutti i sensi). Ma c’è un altro nutrimento essenziale: la voce recitante di Franco Mazzi, considerato dalla critica una delle più belle voci del teatro italiano contemporaneo. Con la sua voce – anzi, i tanti colori, sfumature e registri della sua voce – dà vita al grigio misantropo della Roma di qualche decennio fa, un mitomane che non riesce ad entrare in contatto con la capitale: può compiere solo delle minuscole, abnormi, deformi azioni che gli detta la sua mania, dirigerle a seconda delle sue sensazioni, degli impulsi impertinenti che riceve, quasi sempre acusticamente, da questa rumorosa bolla esterna al suo microcosmo. In questo mondo sonoro c’è posto per tutto, luoghi parlanti e personaggi da commedia umana, come anche una fidanzata, Miriam, che finirà uccisa. La partitura sonora di Hubert Westkemper, con suoni che vanno dal naturale al soprannaturale e che vengono avvertiti in maniera ossessiva dal protagonista, è dunque il terzo ingrediente fondamentale per l’anima della rappresentazione. Rumori di passi, di macchine, di tuoni, dello scarico di un water, dell’interruttore della luce. Rumori ininterrotti che ossessionano e circondano la vita del protagonista senza nome. E che ci insegna come “la perfezione è nella perfetta oscurità” (Gianluca Bottoni ci vuole dire del teatro, magari?), e che gli uomini, oltre ad essere serpenti, sono soprattutto vermi.

Nonostante le poche presenze, lo spettacolo è stato decisamente apprezzato, e gli applausi sono stati forti e decisi. C’è una seconda possibilità, questa sera, venerdì 2, alle 21.

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